INTERVENTO #06
8-29 SETTEMBRE 2018 / STEFANO SERRETTA
Con un contributo critico di Roberta Garieri
Crediti Dear Tina, 2018. Courtesy l'artista
Crediti Dear Tina, 2018. Courtesy l'artista
“Murs blancs, peuple muet”, 2017.
Era questa un’iscrizione “selvaggia” sui muri dei vicoli marsigliesi, immortalata su una pellicola di piccolo formato in un giorno che qualsiasi non era, data l’imminenza delle elezioni in Francia. Un’immagine catturata e congelata in un attimo, fugace per sua natura. Il giorno dopo già non vi era più alcuna traccia.
Ne resta, oggi, una memoria in bianco e nero, che fiera conservo in uno dei cassetti di casa. Ladra di verità, ladra di voci, ma non di tutte, spesso preferisco non ascoltare. Sono quei sussurri indignati, resi muti dagli ordini di chi simula una superiorità solo apparente, di chi spinge l’omologazione a colonizzare la capacità umana di pensare e agire. E invece lascio che risuoni All you need is alternative, senza mai chiudere gli occhi.
Dear Tina, è l’incipit di una lettera, ma non d’amore.
Stefano Serretta recupera questa formula epistolare dalla sfera privata per trasferirla in una dimensione pubblica, visibile, lasciandola in un equilibrio instabile. Certo, perché è una discordanza che intende segnalare. Un destinatario, un bersaglio: lo slogan neo-liberista There is no alternative, il cui acronimo è TINA, si ripete identico su se stesso “come una sorta di mantra rotto”, fino all’indecifrabilità e idealmente volto alla sparizione. Il gesto di sovrapporre si scontra con l’impossibilità di definire un ordine del reale, perché frammentario e sfuggente, reso ingannevolmente poroso dalle fessure aperte tra il linguaggio e i suoi segni, tra il pensiero e la realtà, di cui la retorica neoliberale ne è l’artefice nascosta dietro discorsi e interventi che invadono tutte le dimensioni del quotidiano (economica, politica, soggettiva). Forse, quello che ancora dobbiamo imparare è scorgere ciò che si cela dietro questa razionalità. Provare, ancora una volta, a oltrepassare lo specchio.
(Contributo critico di Roberta Garieri)
INTERVENTO #05
7-29 LUGLIO 2018 / MARCO MARIA ZANIN
Con un contributo critico di Andrea Lerda
Quello del “demuseo” è un paradigma dal quale Marco Maria Zanin parte per rileggere il valore estetico, formale e concettuale di una serie di oggetti. Molto spesso di tratta di materiali che appartengono alla cultura popolare. Elementi carichi di significati sia da un punto di vista affettivo che materiale, legati in maniera ancestrale alla tradizione rurale e contadina. L’artista decide così di lavorare su un processo di decontestualizzazione che ne ridefinisce la forma e il significato. Gli oggetti smettono di essere quello che erano per diventare una nuova presenza carica di un’inedita dimensione semantica.
Per il suo intervento nell’ambito di “Take me a question”, Marco Maria Zanin ha individuato alcuni oggetti contenuti nell’archivio del Museo di Etnologia a Lisbona. Si tratta di tre elementi circolari forati, originariamente impiegati come pesi di terracotta per le reti da pesca.
Procedendo ad assemblare questi oggetti, in un modo che non ha nulla a che vedere con il loro contesto di origine e con la loro funzione reale, Marco Maria Zanin ne ridisegna l’identità.
Quello che ora osserviamo è una sorta di scultura votiva collocata in un tempo e uno spazio altro. Così fancendo, l’artista carica queste presenze di una nuova simbologia, di un nuovo potere estetico e di un nuovo valore affettivo. Dall’essere supporti funzionali alla pesca del pesce si sono trasformati in un piccolo tomem appartenuto a qualche civiltà antica.
Questa locandina, con i dati tecnici della piccola scultura, è la riconfigurazione del paradigma museale tradizionale, che ci permette di vedere un oggetto in maniera non convenzionale. Alla voce “Valore immateriale” sono elencate parole come fede, disciplina, unione famigliare, responsabilità. Termini che identificano l’universo simbolico dell’oggetto precedente e che caricano la scultura di un potere magico-rituale.
Con questo intervento Marco Maria Zanin porta avanti una ricerca legata al mondo delle ‘radici’, del mito e dell’archetipo da una parte, e i fenomeni delle sovrastrutture dell’epoca contemporanea dall’altra.
La fotografia è lo strumento in grado di riallacciare la realtà fisica a spazi metafisici che si mescolano con i luoghi più profondi dell’identità umana, dove il silenzio, più di ogni descrizione, è la via per avvicinarci a toccare ciò che ci circonda. In questo ‘spazio fusionale’, in cui passato e presente si sovrappongono, si apre anche la possibilità di costruire un canale tra le due temporalità, tra lo spazio dove affondano le radici e lo slancio del mondo contemporaneo, affinché l’uno possa nutrire l’altro, affinché si possa osservare con più consapevolezza cosa muove i comportamenti contemporanei, e verso quale direzione.
Marco Maria Zanin nasce a Padova nell’ottobre del 1983. Si laurea prima in Lettere Moderne e poi in Diritti Umani, successivamente partecipa ad un percorso post laurea in Psicologia. Sviluppa contemporaneamente l’attività artistica, e compie numerosi viaggi e soggiorni in diverse parti del mondo, mettendo in pratica quell’esercizio di ‘dislocamento’ fondamentale per l’analisi critica dei contesti sociali, e per alimentare la sua ricerca tesa a individuare gli spazi comuni della comunità umana. Mito e archetipo come matrici sommerse dei comportamenti contemporanei sono il centro della sua indagine, che si snoda sull’osservazione della relazione tra l’uomo, il territorio e il tempo. Sceglie come strumento privilegiato la fotografia, che è spesso usata mescolando tecniche diverse e superando i confini di altre discipline artistiche.
Al momento collabora con due gallerie, in Italia con Spazio Nuovo di Roma e in Svizzera con Photographica Fine Art di Lugano. Le sue opere sono contenute anche nelle seguenti collezioni: MART – Museo di Arte Moderna di Trento e Rovereto; SPM – Salsali Private Museum, Dubai; GAM – Galleria d’Arte Moderna, Genova; Archivio Italo Zannier, Venezia.
Per il suo intervento nell’ambito di “Take me a question”, Marco Maria Zanin ha individuato alcuni oggetti contenuti nell’archivio del Museo di Etnologia a Lisbona. Si tratta di tre elementi circolari forati, originariamente impiegati come pesi di terracotta per le reti da pesca.
Procedendo ad assemblare questi oggetti, in un modo che non ha nulla a che vedere con il loro contesto di origine e con la loro funzione reale, Marco Maria Zanin ne ridisegna l’identità.
Quello che ora osserviamo è una sorta di scultura votiva collocata in un tempo e uno spazio altro. Così fancendo, l’artista carica queste presenze di una nuova simbologia, di un nuovo potere estetico e di un nuovo valore affettivo. Dall’essere supporti funzionali alla pesca del pesce si sono trasformati in un piccolo tomem appartenuto a qualche civiltà antica.
Questa locandina, con i dati tecnici della piccola scultura, è la riconfigurazione del paradigma museale tradizionale, che ci permette di vedere un oggetto in maniera non convenzionale. Alla voce “Valore immateriale” sono elencate parole come fede, disciplina, unione famigliare, responsabilità. Termini che identificano l’universo simbolico dell’oggetto precedente e che caricano la scultura di un potere magico-rituale.
Con questo intervento Marco Maria Zanin porta avanti una ricerca legata al mondo delle ‘radici’, del mito e dell’archetipo da una parte, e i fenomeni delle sovrastrutture dell’epoca contemporanea dall’altra.
La fotografia è lo strumento in grado di riallacciare la realtà fisica a spazi metafisici che si mescolano con i luoghi più profondi dell’identità umana, dove il silenzio, più di ogni descrizione, è la via per avvicinarci a toccare ciò che ci circonda. In questo ‘spazio fusionale’, in cui passato e presente si sovrappongono, si apre anche la possibilità di costruire un canale tra le due temporalità, tra lo spazio dove affondano le radici e lo slancio del mondo contemporaneo, affinché l’uno possa nutrire l’altro, affinché si possa osservare con più consapevolezza cosa muove i comportamenti contemporanei, e verso quale direzione.
Marco Maria Zanin nasce a Padova nell’ottobre del 1983. Si laurea prima in Lettere Moderne e poi in Diritti Umani, successivamente partecipa ad un percorso post laurea in Psicologia. Sviluppa contemporaneamente l’attività artistica, e compie numerosi viaggi e soggiorni in diverse parti del mondo, mettendo in pratica quell’esercizio di ‘dislocamento’ fondamentale per l’analisi critica dei contesti sociali, e per alimentare la sua ricerca tesa a individuare gli spazi comuni della comunità umana. Mito e archetipo come matrici sommerse dei comportamenti contemporanei sono il centro della sua indagine, che si snoda sull’osservazione della relazione tra l’uomo, il territorio e il tempo. Sceglie come strumento privilegiato la fotografia, che è spesso usata mescolando tecniche diverse e superando i confini di altre discipline artistiche.
Al momento collabora con due gallerie, in Italia con Spazio Nuovo di Roma e in Svizzera con Photographica Fine Art di Lugano. Le sue opere sono contenute anche nelle seguenti collezioni: MART – Museo di Arte Moderna di Trento e Rovereto; SPM – Salsali Private Museum, Dubai; GAM – Galleria d’Arte Moderna, Genova; Archivio Italo Zannier, Venezia.
INTERVENTO #04
2-26 GIUGNO 2018 / GIOVANNI KRONENBERG
Con un contributo critico di Andrea Lerda e Sonia D'Alto
Crediti: Galleria Sara Zanin, Roma e Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano
Crediti: Galleria Sara Zanin, Roma e Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano
L’intervento di Giovanni Kronenberg fa riferimento a un episodio avvenuto nel 2006. Si tratta dell’avvelenamento avvenuto a Londra, mediante una sostanza radioattiva disciolta forse in una tazza di the, dell’ex spia russa Alexander Litvinenko. L’uomo morì tre settimane dopo allo University College Hospital della capitale londinese. In una lettera resa nota dopo la sua morte, l’uomo punta il dito direttamente contro il premier russo, Vladimir Putin, quale mandante dell’esecuzione. Nell'ultima conversazione avuta con l'amico Andrei Nekrasov, quando ancora era in grado di parlare, Litvinenko - che nell'ultimo periodo stava indagando sull'assassinio di Anna Politkovskaya, la giornalista russa ferocemente critica del governo di Vladimir Putin e uccisa a Mosca il 7 ottobre scorso - ha sottolineato come il suo avvelenamento sia la prova che nella sua campagna contro il Cremlino aveva colpito le persone giuste. «Questo è quello che succede a chi dice la verità», aveva sussurrato. L'ex spia si riferiva alle accuse contenute nel suo libro The Fsb blows up Russia, in cui aveva sostenuto che ci fossero stati i servizi segreti di Mosca dietro alla sanguinosa scia di attentati dell'agosto del 1999 nella capitale russa, costati la vita a centinaia di persone e utilizzati per giustificare l'inizio della seconda guerra in Cecenia. Ai misteri sui mandanti dell'uccisione dell'ex spia - il Cremlino ha bollato come “sciocchezze” le teorie secondo cui ci sarebbe la leadership di Mosca dietro la sua morte - si aggiunge il mistero sulla sostanza con cui è stato avvelenato.
Quella di Alexander Litvinenko è dunque una spy story ancora oggi irrisolta, degna di un film di 007. Una notizia che ha trovato immediato interesse da parte della stampa internazinoale che, in maniera del tutto stereotipizzata, ha dato ampio spazio a un evento tragico dai contorni inquientanti.
Giovanni Kronenberg decide di tornare a riflettere su questo evento in maniera provocatoria. L’immagine scelta per l’intervento nell’ambito di Take me a question è quella dell’uomo russo, deformata digitalmente attraverso una tecnica che ci fa pensare in maniera quasi immediata a quanto da bambini eravamo soliti fare in maniera ludica e divertita, utilizzando lo scotch per deformare la mimica del nostro volto. L’azione che compie in questo caso l’artista si proietta tuttavia ben oltre, generando riflessioni e significati a più livelli. L’immagine Alexander Litvinenko volutamente modificata, rimanda in prima istanza al veleno che ha devastato il corpo del russo. La brutalità di un volto divenuto orribile ci ricorda la spietatezza del potere, sia esso manifesto o occulto. Inoltre, l’accento che implicitamente si vuole porre è quello rivolto alla distorsione che il sistema dei massmedia possono esercitare sulla nostra capacità di osservazione e su quella di giudizio nei confronti della realtà. Nell’accostare frammenti che rompono l’integrità di un volto, Giovanni Kronenberg ci porta a riaprire gli occhi, ci invita a osservare meglio e a ricomporre gli eventi del nostro tempo partendo dai frammenti che faticosamente è necessario individuare per ricostruire la verità delle cose. (Contributo critico di Andrea Lerda)
Esiste un paradigma indiziario, utilizzato non solo da spie e da detective in giro per il mondo, ma di uso comune anche tra visionari, artisti, critici e scrittori. Tale paradigma si basa su un’indagine per piste, tracce, indizi. Richiede un’osservazione dettata dagli occhi del cervello e da una diagnosi scientifica. In casi come questi, l’indagine è rivolta spesso allo statuto dell’immagine. Nella mia indagine cercavo di risalire a quella dell’artista Giovanni Kronenberg, che bizzarramente aveva deciso di proporre per un progetto pubblico in un piccolo paese italiano l’immagine di una spia dal volto coperto di scotch. Più precisamente, si tratta del ritratto di una spia russa uccisa per avvelenamento nel 2006. L’immagine è stata ricavata dalla sua fagocitazione/ stereotipizzazione operata dai media e poi mutuata per intervento grafico e per assimilazione alla serie Monster dell’artista Douglas Gordon. Uno degli indizi che posso fornire al pubblico è forse la sua post-produzione. Come la figura reale della spia, quella costruita dai media e infine quella per intervento dell’artista (non diretto) agiscono sulla realtà. I mostri, come in questa immagine, ci offrono la vita e la morte della realtà, contribuisco a costruire storie e a nasconderne altre. (Contributo critico di Sonia D'Alto)
Giovanni Kronenberg nato a Milano nel 1974 vive a lavora a Milano.
Il suo lavoro è stato esposto in gallerie , fondazioni e musei tra cui si ricordano Renata Fabbri arte contemporanea di Milano (2017), Z2o Sara Zanin di Roma(2016), Studio Guenzani di Milano (2012, 2007, 2006), la galleria Fuoricampo Bruxelles (2014), il MAXXI di Roma (2007), il MACRO di Roma (2012), la Nomas Foundation di Roma (2012), l'istituto culturale Polacco di Roma (2015), il Museo di Arte contemporanea di Lugano (2009), la basilica Palladiana di Vicenza (2013), il Foro Italico di Roma (2014), la Fondazione Spinola Banna di Torino (2008), la Fondazione Ratti di Como (2003), la Fondazione Sandretto di Torino (2011), Arte all'arte/Galleria Continua di S.Gimignano (2005), e Viafarini a Milano (2005 e 2004). Sul suo lavoro hanno scritto critici come Alessandro Rabottini, Simone Menegoi, Davide Ferri.
Il suo lavoro è stato esposto in gallerie , fondazioni e musei tra cui si ricordano Renata Fabbri arte contemporanea di Milano (2017), Z2o Sara Zanin di Roma(2016), Studio Guenzani di Milano (2012, 2007, 2006), la galleria Fuoricampo Bruxelles (2014), il MAXXI di Roma (2007), il MACRO di Roma (2012), la Nomas Foundation di Roma (2012), l'istituto culturale Polacco di Roma (2015), il Museo di Arte contemporanea di Lugano (2009), la basilica Palladiana di Vicenza (2013), il Foro Italico di Roma (2014), la Fondazione Spinola Banna di Torino (2008), la Fondazione Ratti di Como (2003), la Fondazione Sandretto di Torino (2011), Arte all'arte/Galleria Continua di S.Gimignano (2005), e Viafarini a Milano (2005 e 2004). Sul suo lavoro hanno scritto critici come Alessandro Rabottini, Simone Menegoi, Davide Ferri.
INTERVENTO #03
13-30 maggio 2018 / gabriella ciancimino
Leda Windmill, the Numerologist of Alacati è un progetto nomade nato nel 2017 che ritengo come una combinazione del mio vocabolario visuale, grafico, scultoreo, relazionale. Fin da quando ne ho cominciato lo studio, ho immaginato la creazione di veri e propri set inseriti in cui si svolgono gli happening di Leda Windmill che offre delle sessioni di Numerologia sul personale concetto di Potere.
Goal del progetto è il coinvolgimento della comunità in un dialogo sul concetto di libertà e invitando il pubblico a dare il via al proprio viaggio eroico interiore che avviene con l’ausilio di alcune carte da me disegnate in tecnica mista la cui l'iconografia è il risultato di un mix di numeri e illustrazioni botaniche di specie sinantropiche. La prima tappa di Leda è stata Mumbai, poi la volta di Alacati, un piccolo paesino nel sud della Turchia dove è nato il progetto. E adesso, anche se solo tramite immagine, è la volta di “Take a question”, che è esattamente la frase con cui do inizio alle performance.
GABRIELLA CIANCIMINO / PALERMO 1978, dove vive e lavora
Gabriella Ciancimino (Palermo,1978) dopo aver conseguito la maturità classica, ha approfondito il suo interesse per la storia e la filosofia applicata all’arte frequentando l’Accademia d Belle arti di Palermo (indirizzo Pittura) presso cui consegue il Diploma nel 2004. Negli stessi anni svolge attività giornalistica accompagnata da militanza politica, avviando l’indagine sulle dinamiche relazionali e sulla comunicazione ancora presenti nella sua ricerca. E ad essa da 10 anni è legata la scelta del nomadismo come stile di vita, migrando costantemente e partecipando a numerosi programmi di residenza internazionali che l’artista considera fondamentali per la sua continua formazione e lo sviluppo del proprio linguaggio. Ha esposto al MMOMA (Mosca, 2016), MACBA (2014 Barcellona,), Kunsthalle Mulhouse (2013, FR), Museo Villa Croce (Genova, 2013), PAV (Torino 2013), Triennale di Milano (2013), alla Biennale Benin (2012), L’appartement 22 (Rabat, MO, 2010/2012), at RISO - Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia (Palermo, 2010), American Academy, Rome (2009/2012). Ha preso parte a progetti per Manifesta 12 (2017), Volume 1 project of "Sentences on the banks and other activities" exhibition project at Darat al Funun (Amman, Giordania 2010) e Working For Change. Project for A Moroccan Pavilion at the 54th Venice Biennale (Venezia, IT, 2011).
Le sue opere sono state acquisite in alcune collezioni pubbliche tra cui, Palazzo Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, (Palermo), Museo del Novecento (Milano), Museo Villa Croce (Genova) e Frac Provence-Alpes-Côte d’Azur (Marsiglia, FR).
Le sue opere sono state acquisite in alcune collezioni pubbliche tra cui, Palazzo Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, (Palermo), Museo del Novecento (Milano), Museo Villa Croce (Genova) e Frac Provence-Alpes-Côte d’Azur (Marsiglia, FR).
INTERVENTO #02
2-29 APRILE 2018 / LOREDANA LONGO
Con un contributo critico di Andrea Lerda e Giulia Gelmini
e con la collaborazione della Galleria Francesco Pantaleone, Milano
e con la collaborazione della Galleria Francesco Pantaleone, Milano
Loredana Longo, Il lupo non smette mai di mangiare, 2018,
stampa su carta plastificata, cm 70x50. Courtesy Francesco Pantaleone, Milano
stampa su carta plastificata, cm 70x50. Courtesy Francesco Pantaleone, Milano
Di cosa si nutre la nostra mente? Di tutto, è onnivora, divora immagini, frasi, pensieri e in una sequenza indefinita, spesso non fa alcuna selezione, riesce anche a saturarsi, ma in tutto questo c’è sempre qualcosa che rimane a galla, che si blocca in uno strano loop, voglio ricordarla perché mi appartiene, la sento mia, si lega a qualcosa d’indefinito ma in verità se qualcosa colpisce il mio interesse è perché sono interessata a quel qualcosa.
Giorni fa guardavo un film, Milada, la storia di una donna forte e coraggiosa vissuta lo scorso secolo in Cecoslovacchia, militante politica, imprigionata prima dal regime nazista di Hitler e dopo da quello comunista del suo paese, morta impiccata per amore dei valori della democrazia in cui ha creduto per tutta la sua vita. Durante il film, in un momento in cui Milada capiì che il nuovo regime insediato nel suo paese non sarebbe stato diverso dal precedente, pronunciò questa frase: Il lupo non smette mai di mangiare.
Queste parole, semplici ma molto forti, rimandano a molteplici questioni in tutti i campi e non voglio dare una o più spiegazioni per le quali ho riportato questa frase, perché sono certa che ogni persona ha dentro sé delle risposte.
Non è un caso che abbia utilizzato il particolare di un’immagine della bocca di due lupi affamati, che la scritta sia di colore rosso, che sembri un cartellone pubblicitario di un film e che sia collocata nella parte frontale di un cestino pubblicitario.
Da un lato l’immagine è spiazzante, subito si potrebbe pensare alla ferocia dell’animale lupo, ma questo pensiero dura il tempo di un battito di ciglia, perché l’animale più ingordo è l’uomo e ognuno di noi lo sa. (Loredana Longo)
Per il secondo appuntamento del progetto "Take me a question", Loredana Longo ha deciso di realizzare un intervento che mette in dialogo parola e immagine.
Artista che non rinuncia mai a una buona dose di provocatorietà all'interno del suo lavoro, anche in questo caso ha saputo creare uno "spazio di riflessione" grazie a un parallelo tra cinematografia e cultura generale. Prendendo alla lettera quello che è l'intento del progetto di arte pubblica in questione, Loredana Longo utilizza questa sorta di "museo di strada" come contenitore che accoglie e propone senza filtri particolari un messaggio dai toni tutt'altro che rassicuranti.
Quello che lo spettatore avrà modo di osservare camminando per le vie del centro di Caraglio (CN) è un poster che ritrae un lupo in atteggiamento aggressivo e la scritta "Il lupo non smette mai di mangiare". Nel prendere in prestito le parole pronunciate dalla protagonita del film "Milada", Loredana Longo suggerisce uno o più paralleli possibili con gli atteggiamenti più oscuri della natura umana all'interno della società contemporanea. Docile e aggressivo è l'uomo contemporaneo, famelico di potere, di conquista e di ricchezza a tutti i costi. Ma il paradosso è che il ritratto della spietata crudeltà insita nella natura animale non ha nulla a che vedere con l'immensa follia della crudeltà recidiva dell'uomo.
L'intervento di Loredana Longo è una fotografia del mondo attuale. L'invito che l'artista rivolge a chi osserva il suo poster è quello di essere vigile e di guardare la storia come un costante ritornare e ripetersi. Essere critici, essere attenti, essere più umani. (contributo critico di Andrea Lerda)
Famelico come un lupo è ormai l’uomo contemporaneo, che senza tregua produce contenuti e poi li divora. Siamo produttori e consumatori instancabili con molti vizi. Il lupo non smette mai di mangiare, quel film che da anni si ripete nelle sale cinematografiche di tutto il mondo e che ci mette di fronte a un’evidenza di fatti: non impariamo dai nostri errori. Ci sono vizi difficilmente sradicabili e ognuno di noi ne possiede uno. Debolezze che contraddistinguono la nostra anima, rendendola più fragile e meno perfetta. Più umana. E i vizi capitali ce lo insegnano. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia. Azioni che formano una certa abitudine, che al contrario della virtù, distrugge la nobile crescita interiore. Loredana Longo sembra vestire i panni della regista di un film universale dai toni noir. La trama non è data. Potrebbe trattarsi di un film dell’orrore, di un thriller o di un vecchio film ambientato nella Russia Siberiana. Ci si potrebbe aspettare un’invasione pubblicitaria in tutte le città, e una scritta attaccata a mano sotto la locandina: “coming soon”, cari spettatori, sta per arrivare un sensazionale lungometraggio che porterà alla luce le più oscure aree dell’inconscio umano, laddove si nascondo paure, terribili ricordi e vizi incorreggibili. (contributo critico di Giulia Gelmini)
Giorni fa guardavo un film, Milada, la storia di una donna forte e coraggiosa vissuta lo scorso secolo in Cecoslovacchia, militante politica, imprigionata prima dal regime nazista di Hitler e dopo da quello comunista del suo paese, morta impiccata per amore dei valori della democrazia in cui ha creduto per tutta la sua vita. Durante il film, in un momento in cui Milada capiì che il nuovo regime insediato nel suo paese non sarebbe stato diverso dal precedente, pronunciò questa frase: Il lupo non smette mai di mangiare.
Queste parole, semplici ma molto forti, rimandano a molteplici questioni in tutti i campi e non voglio dare una o più spiegazioni per le quali ho riportato questa frase, perché sono certa che ogni persona ha dentro sé delle risposte.
Non è un caso che abbia utilizzato il particolare di un’immagine della bocca di due lupi affamati, che la scritta sia di colore rosso, che sembri un cartellone pubblicitario di un film e che sia collocata nella parte frontale di un cestino pubblicitario.
Da un lato l’immagine è spiazzante, subito si potrebbe pensare alla ferocia dell’animale lupo, ma questo pensiero dura il tempo di un battito di ciglia, perché l’animale più ingordo è l’uomo e ognuno di noi lo sa. (Loredana Longo)
Per il secondo appuntamento del progetto "Take me a question", Loredana Longo ha deciso di realizzare un intervento che mette in dialogo parola e immagine.
Artista che non rinuncia mai a una buona dose di provocatorietà all'interno del suo lavoro, anche in questo caso ha saputo creare uno "spazio di riflessione" grazie a un parallelo tra cinematografia e cultura generale. Prendendo alla lettera quello che è l'intento del progetto di arte pubblica in questione, Loredana Longo utilizza questa sorta di "museo di strada" come contenitore che accoglie e propone senza filtri particolari un messaggio dai toni tutt'altro che rassicuranti.
Quello che lo spettatore avrà modo di osservare camminando per le vie del centro di Caraglio (CN) è un poster che ritrae un lupo in atteggiamento aggressivo e la scritta "Il lupo non smette mai di mangiare". Nel prendere in prestito le parole pronunciate dalla protagonita del film "Milada", Loredana Longo suggerisce uno o più paralleli possibili con gli atteggiamenti più oscuri della natura umana all'interno della società contemporanea. Docile e aggressivo è l'uomo contemporaneo, famelico di potere, di conquista e di ricchezza a tutti i costi. Ma il paradosso è che il ritratto della spietata crudeltà insita nella natura animale non ha nulla a che vedere con l'immensa follia della crudeltà recidiva dell'uomo.
L'intervento di Loredana Longo è una fotografia del mondo attuale. L'invito che l'artista rivolge a chi osserva il suo poster è quello di essere vigile e di guardare la storia come un costante ritornare e ripetersi. Essere critici, essere attenti, essere più umani. (contributo critico di Andrea Lerda)
Famelico come un lupo è ormai l’uomo contemporaneo, che senza tregua produce contenuti e poi li divora. Siamo produttori e consumatori instancabili con molti vizi. Il lupo non smette mai di mangiare, quel film che da anni si ripete nelle sale cinematografiche di tutto il mondo e che ci mette di fronte a un’evidenza di fatti: non impariamo dai nostri errori. Ci sono vizi difficilmente sradicabili e ognuno di noi ne possiede uno. Debolezze che contraddistinguono la nostra anima, rendendola più fragile e meno perfetta. Più umana. E i vizi capitali ce lo insegnano. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia. Azioni che formano una certa abitudine, che al contrario della virtù, distrugge la nobile crescita interiore. Loredana Longo sembra vestire i panni della regista di un film universale dai toni noir. La trama non è data. Potrebbe trattarsi di un film dell’orrore, di un thriller o di un vecchio film ambientato nella Russia Siberiana. Ci si potrebbe aspettare un’invasione pubblicitaria in tutte le città, e una scritta attaccata a mano sotto la locandina: “coming soon”, cari spettatori, sta per arrivare un sensazionale lungometraggio che porterà alla luce le più oscure aree dell’inconscio umano, laddove si nascondo paure, terribili ricordi e vizi incorreggibili. (contributo critico di Giulia Gelmini)
LOREDANA LONGO / Catania, 1967 / Vive a Milano
Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catania, prosegue il suo percorso seguendo un concetto da lei stessa denominato “Estetica della distruzione”, in cui realizza installazioni, performance spesso documentate da video e fotografie. Numerose le mostre in Italia e all’estero tra cui si ricordano nel 2017 Victory, la mattanza, Consolato Italiano a New York / Due South, Delaware Contemporary Museum, Wilmington, USA / Victory, Francesco Pantaleone arte Contemporanea, Palermo; nel 2016 The Mdina Cathedral Contemporary Art Biennale, Malta; nel 2015 Nel mezzo del mezzo, Palazzo Riso, Palerm, e My own war, GAM, Palermo. Nel 2014 Un été sicilien, Chateau de Nyon, Svizzera; nel 2013 Violence, XV Biennale Donna, PAC Ferrara; nel 2012 Secret Gardens, Tent, Rotterdam / WUunsch und Ordnung, Ausstelungsraum Klingental, Basel, Svizzera; nel 2011 Festarte Videoart Festival, MACRO Testaccio, Roma; nel 2010 Inmotion 2009, Biennal Internacional de Performance i Arts Visuals Aplicades, CCCB, Spagna; nel 2009 AIM, International Biennale, Marrakech, Marocco; nel 2009 Tina B., The Prague Contemporary Art Festival, Praga, Repubblica Ceca; nel 2008 Abracadabra, Italian Institute of Culture, Madrid, Spagna e Gemine Muse International, Benaki Museum, Atene. Infine nel 2004 la partecipazione alle XIV Quadriennale, Anteprima, Palazzo Reale, Napoli e Echigo Tsumari Art Triennal, Tokio, Japan.
Intervento #01
3-31 marzo 2018 / FRANCO ARIAUDO
Con un contributo critico di Andrea Lerda e Lisa Andreani
e con la collaborazione di COLLI indipendent art gallery
e con la collaborazione di COLLI indipendent art gallery
Uno dei primi casi, forse proprio il primo, in cui è stato utilizzato come medium di comunicazione visiva urbana il cartellone pubblicitario fu in occasione dell’Operazione 24 fogli, intitolata Dissuasione Manifesta. L’evento si tenne a Volterra, nel 1973, con il coordinamento di Enrico Crispolti. In quel caso il manifesto, di dimensioni decisamente importanti (6 metri di lunghezza per 2,80 di altezza), diventò per la prima volta un oggetto depositario di contenuti diversi da quelli consueti nel circuito della comunicazione consumistica (pubblicità di prodotti, di aziente, di film ecc.). Ecco che cosa veniva riportato nello statement dell’iniziativa: “Se la destinazione consueta [del cartellone pubblicitario] è quella della ‘persuasione’, più o meno occulta, verso i condizionamenti del consumismo, l’Operazione 24 fogli suggerisce un rovesciamento di intenzioni, proponendo immagini concorrenziali e alternative nello spazio urbano: non ‘persuasione occulta’, bensì Dissuasione Manifesta. Attraverso l’Operazione 24 fogli, pittori e scultori, operatori visivi cercano un tipo di comunicazione diverso: si appropriano di un ‘mass medium’ urbano per agire nella dimensione di questo, che è lo spazio cittadino, per agire insomma nello spazio cittadino con un mezzo specifico e non improprio. L’Operazione 24 fogli è dunque una proposta alternativa al circuito di fruizione consueto alla pittura e alla scultura. Si stabilisce un rapporto nuovo, aperto nello spazio cittadino, sulla città, un dialogo che è ideologico proprio nei canali di una comunicazione che promuove altrimenti la disattenzione ideologica, l’attenzione inconsapevole di sola superficie, la percezione disattenta”.Il contenitore che ospita il progetto di arte pubblica “Take me a question” è invece un cestino pubblicitario. Nonostante le dimensioni, più ridotte rispetto all’esperienza di Volterra, le premesse concettuali rimangono pressoché identiche. Provocare lo sguardo e stimolare il pensiero. Il suo formato ricorda in questo caso quello delle locandine informative che siamo abituati a vedere fuori dalle edicole. Questa specificità, unita alla recente indagine che Franco Ariaudo sta portando avanti dal 2017 con il progetto il Giornale Ideale, costituiscono le premesse per l’intervento che l’artista ha deciso di realizzare a Caraglio.
Franco Ariaudo ha deciso di sviluppare il concept del suo manifesto partendo da due eventi specifici di cronaca locale: il primo, meno recente, è quello relativo alla chiusura del Centro Sperimentale per l’Arte Contemporanea nel 2016, il secondo, più attuale, si lega al contenuto della lettera aperta che Mauro Gola, Presidente di Confindustria Cuneo, ha inviato alle famiglie cuneesi. In questo documento il Presidente Gola scrive che molto spesso la scelta della scuola superiore “viene fatta dando più importanza ad aspetti emotivi e ideali, piuttosto che all’esame obiettivo della realtà”. Riportando poco dopo il dato secondo cui la quasi totalità delle assunzioni sul territorio cuneese sono di operai specializzati e di addetti ai macchinari, invitava esplicitamente le famiglie a indirizzare i loro figli non sulla strada di una formazione intellettuale in ambito umanistico o scientifico, bensì di quella professionale. Insomma, potremmo leggerla senza troppi errori in questo modo: meno filosofi e più operai. Mauro Gola scrive una cosa corretta: “il nostro dovere è quello di evidenziarvi questa realtà”. Tuttavia non considera che quel senso di responsabilità al quale fa riferimento nella sua lettera non risiede semplicemente nell’invitare a scegliere la strada più semplice, quanto di fare si che siano le istituzioni e la politica a generare le opportunità mancanti o assenti nei settori meno cari al territorio cuneese.
Il manifesto di Franco Ariaudo ribalta la situazione dei fatti e facendo leva sul potere immaginifico dell’arte, annuncia l’apertura di una sede del Louvre a Caraglio. L’evento scardina le certezze del Presidente che, inviando una nuova lettera agli studenti, compie una vera e propria chiamata alle armi: “servono più artisti”. (contributo critico di Andrea Lerda)
“Dalla provincia con furore le news più belle per quelli del settore” sembra urlarci un immaginario edicolante di Caraglio. Il “settore” di cui egli parla è quello dell’arte contemporanea mentre la notizia (quella è apparsa per davvero) la ritroviamo su un cestino pubblicitario della città. È il Giornale Ideale di Franco Ariaudo, macroprogetto di un quotidiano sul quale l’artista permette di pubblicare e far leggere le news che più vorresti incontrare. Così a Caraglio, sede per anni del CeSAC – Centro Sperimentale per l’Arte Contemporanea -, nasce un nuovo Louvre. Se sia la succursale di Parigi o di Abu Dhabi non ci è dato sapere, quel che invece per un’istante è possibile sperare è che nella località cunese l’attività artistica ricominci a prendere piede. A tal proposito si aggiunge la seconda notizia del poster, Confindustria chiede ai genitori di suggerire ai propri figli percorsi intellettuali e creativi. L’utopica situazione presentata dal quotidiano appare splendente e luccicante, un faro di speranza e possibilità. Il carattere finzionale non è ironico e cinico, ma destabilizzante nella creazione di un corto-circuito che porta ad un sorriso e a un punto interrogativo. I paradossi e controsensi che rimarca Ariaudo sono quelli che ci creiamo a causa del nostro fare poco e male o del nostro lasciarci trascinare. (contributo critico di Lisa Andreani)
FRANCO ARIAUDO / Cuneo 1979, Vive a Torino
La ricerca transdisciplinare di Franco Ariaudo attinge dal mondo dell’antropologia, della sociologia, della ritualità, dello sport e del tempo libero. Indaga, e talvolta destabilizza, quei cortocircuiti antropologici e sociali che portano alla formazione di uno specifico tipo di pensiero, all'instaurarsi di una tradizione o semplicemente all'espressione di un cliché. A livello formale, Ariaudo ricorre a diversi media e dispositivi che, in virtù di piccole variazioni percettive, tendono a disturbare lo sguardo abituale dello spettatore. Dal 2015 Franco Ariaudo collabora con COLLI Independent Art Gallery di Roma. É membro del Progetto Diogene (Torino) dal 2011 e nel 2013 è stato artista residente presso Khoj, International Artist Association, Nuova Delhi, India nell’ambito della piattaforma Resò. Nel 2016 è stato invitato a Toruń, in Polonia, attraverso il progetto New Urban Archaeology di Kulturhauz per sviluppare la sua ricerca in-situ intitolata Derby, curata da Krzysztof Gutfrański. Ad agosto 2017 ha presentato al CCA Ujazdowski Castle di Varsavia una performance partecipativa dal titolo "Cubo Race", a cura di Anna Czaban. Recentemente ha presentato la mostra/progetto "Sportification, The Big Piano Smash” alla GAM - Galleria d’Arte Moderna di Torino, a cura di Elena Volpato.
Ariaudo è autore e curatore con Fabio Cafagna del libro “Del Lancio” (Viaindustriae, 2015), un’analisi sul gesto del lancio nella storia dell'arte e con Luca Pucci ed Emanuele De Donno del libro “Sportification, eurovisions, performativity and playgrounds”, una ricerca interdisciplinare focalizzata sull'analisi dei temi dello sport, della competizione e del gioco in relazione al vasto archivio dello show televisivo Giochi Senza Frontiere e la performing art dal 1965 ai giorni nostri. Uno dei suoi ultimi progetti è Il Giornale Ideale, una pubblicazione sotto forma di quotidiano in cui chiunque può pubblicare le proprie notizie ideali.
Ariaudo è autore e curatore con Fabio Cafagna del libro “Del Lancio” (Viaindustriae, 2015), un’analisi sul gesto del lancio nella storia dell'arte e con Luca Pucci ed Emanuele De Donno del libro “Sportification, eurovisions, performativity and playgrounds”, una ricerca interdisciplinare focalizzata sull'analisi dei temi dello sport, della competizione e del gioco in relazione al vasto archivio dello show televisivo Giochi Senza Frontiere e la performing art dal 1965 ai giorni nostri. Uno dei suoi ultimi progetti è Il Giornale Ideale, una pubblicazione sotto forma di quotidiano in cui chiunque può pubblicare le proprie notizie ideali.
L'intervento di Franco Ariaudo rientra nell'ambito del Giornale Ideale, progetto che l'artista ha avviato nel 2017.
Il Giornale Ideale è una pubblicazione in forma di quotidiano sulla quale chiunque può pubblicare la propria notizia “ideale”.
Il Giornale Ideale è una pubblicazione in forma di quotidiano sulla quale chiunque può pubblicare la propria notizia “ideale”.
- Non si tratta di una pubblicazione periodica bensì di un progetto context specific. Ad ogni attuazione del progetto viene
- attivata su uno specifico territorio la redazione del giornale, luogo di raccolta e sviluppo delle notizie che andranno ad
- alimentare l’edizione. Sul Giornale Ideale le persone possono pubblicare quelle notizie, intime o universali, che vorrebbero
- trovare scritte sul proprio giornale preferito.